Prima Parte

Benché la comunicazione con gli esseri disincarnati non sia troppo largamente praticata nei Paesi industrializzati, essa ha di fatto occupato un posto di tutto rilievo in seno all’evoluzione umana di cui si abbia conoscenza. Fin dai tempi più remoti, i popoli hanno ricercato informazioni e consigli presso quanti vivono “dall’altra parte”. Leggi tutto

Ricordo bene il giorno in cui attraversai le vaste distese della Grande Prateria, a testa alta, le piume del copricapo ondeggianti al vento. I soldati videro soltanto la mia figura che si stagliava contro il cielo. Mi avvicinai lentamente, le braccia scostate dal corpo ed i palmi delle mani rivolti verso di loro, in segno di pace. Osservavo le ondate d’amore che si sprigionavano dalle mie mani e che avevano tutta la forza dell’amore da me espresso prima e dopo il Golgota. Leggi Tutto

Noi siamo il Popolo degli Uccelli, il Clan Solare, i Figli delle Stelle. I miti africani relativi alla creazione dell’universo ricordano la nostra esistenza, gli aborigeni australiani ci onorano e le tradizioni popolari di tutti i popoli della Terra evocano la nostra presenza: siamo la fonte di ogni natività, la maniera in cui la creatività dello spirito si manifesta in questo mondo ed in tutti i mondi superiori. Individualizzati ed intelligenti, in virtù della nostra natura spirituale, rappresentiamo l’influenza tangibile attraverso la quale un Creatore onnipotente opera l’unione con un mondo materiale. Leggi Tutto

Nonostante la ribellione delle razze guerriere, alcuni popoli continuarono ad opporsi all’idea di ricacciare i loro spiriti stellari. Attorno ai fuochi, durante le riunioni dei consigli, rappresentavamo ciascuna delle tribù rimaste fedeli attraverso un piccolo cerchio tracciato sulla sabbia, ed intorno a questi Custodi dei Cerchi di Luce disegnavamo poi un’ampia circonferenza, simbolo del Grande Spirito che tutti li racchiudeva. Tra noi ci riconoscevamo col nome di “Ongwhehonwhe”, che significa “il popolo fedele alla realtà”. Leggi Tutto

Veniamo designati con numerosi appellativi. Siamo stati chiamati angeli, Popolo degli Uccelli, Sé Superiori, Hoksedas, Spiriti delle Stelle. Ma la realtà della nostra natura supera il significato evocato da una semplice parola. noi siamo le innumerevoli proiezioni dell’Eterno Uno, siamo spiriti destinati a fondersi negli esseri umani di oggi. Attualmente voi credete di essere il vostro ego, ma quest’ultimo rappresenta solo una metà dell’equazione umana. Un uomo completo è una stretta alleanza di spirito ed ego. Leggi Tutto

Veniva dalle stelle. Numerose furono le tribù che ricevettero la sua visita, ed ognuna di esse la chiamava con un diverso nome. Ora potete immaginarla così come apparve a due cacciatori sioux che stavano camminando a piedi nudi lungo le pendici ondulate delle colline che costellavano la grande prateria. Leggi Tutto

La nostra visione originale lasciava intendere che i popoli americani avrebbero mantenuto la loro integrità. Se tale visione si fosse realizzata, gli scambi tra americani ed europei sarebbero stati di natura strettamente educativa, ed i popoli d’America avrebbero svolto il ruolo di maestri e di guaritori, per guidare consapevolmente le razze guerriere fuori dalle tenebre. Leggi Tutto

Erano ormai alcune settimane che vivevo con i Mohawk. Fin dal mio arrivo, essi avevano tollerato la mia presenza con riluttanza, considerandomi uno straniero dai modi schietti, venuto dal nord, ma da quel momento in poi, non avrei nemmeno più avuto diritto a quella fredda accoglienza. Leggi Tutto

Come avevo sperato, il Popolo della Selce fu il primo ad accettare di appartenere ad una confederazione tribale, a patto che potessi farmi garante della buona volontà delle altre nazioni irochesi. Leggi Tutto

La visione che mi era apparsa in una notte stellata di cinque inverni prima diventava ora realtà. L’anno precedente avevo visto la quinta nazione, quella dei Seneca, aderire alla pace, ed i principali rappresentanti delle cinque tribù irochesi erano stati adesso convocati allo scopo di istituire ufficialmente la lega. Leggi Tutto

In quell’assembramento di cacciatori e guerrieri, accadde poi qualcosa di assai particolare. Più tardi, alcuni dissero che si era prodotto un miracolo, tuttavia i testimoni della scena non ci trovarono nulla di anormale. In realtà, la nostra dimostrazione non fu che passeggera, tanto il fatto ci parve naturale ed attinente al racconto di Hiawatha.  Leggi Tutto

La pace regnò dunque nelle foreste dell’America del Nord durante la luna delle Oche Dirette a Sud, l’anno in cui piantammo l’Albero dalle Grandi e Lunghe Foglie, undici secoli dopo le attività che avevamo condotto in Galilea. Col tempo, i Tuscarora si unirono alla Confederazione, che divenne allora quel gruppo di sei nazioni menzionato dalla storia. Col passare degli anni, decine di altre tribù e nazioni poterono beneficiare della pace diffusa da questa potente alleanza: la Lega degli Irochesi ebbe un impatto su tribù lontane, come quelle degli Osage e degli Omaha, e partecipò attivamente alla diffusione della saggezza del Cerchio Sacro e della pace che da esso procede, così come l’estate procede dalla primavera.  Leggi Tutto

Ascoltate, esseri umani che vivete oggi; prestate orecchio, così come la femmina del passero è attenta al richiamo del suo innamorato portato dal vento. Ci rivolgiamo a voi nei vostri sogni, in alcuni frammenti di canzone che udite distrattamente, vi parliamo per bocca dei bambini, attraverso le pagine di questo libro. Ma più ancora, vi parliamo dal più profondo del vostro essere. Ascoltateci e rammentate chi siete.  Leggi Tutto

Seconda Parte

La Mente Serpentina Si libera Dai rami della confusione Dischiude la propria conoscenza per salutare l’alba. Leggi tutto

Dietro i venti leggeri che bisbigliano tra le cime degli alberi, delle energie pure e delicate penetrano pulsando nel vostro mondo. Esse provengono dai livelli spirituali, da un livello di energia per voi invisibile, ma non per questo meno reale di tutto ciò che potete toccare o sentire. Leggi Tutto

Il nostro compito è quello di popolare un universo materiale di creature in grado di esprimere l’equilibrio tra le polarità stellari e planetarie. Abbiamo bisogno di esseri che abbiano una sostanza – carne ed ossa, ali, pelliccia, squame, occhi! – esseri sensibili ai suoni ed alla luce. Vogliamo abitare forme fatte di terra e di luce celeste. Siamo interessati agli uomini: gli artisti, i creativi, gli innamorati che celebrano gli elementi intonando un canto alla Vita. Leggi Tutto

La storia dell’umanità ha costituito una rappresentazione incompleta e parziale dell’universo, una creazione dell’immaginazione umana basata sull’osservazione di esseri che non sono in grado di captare le frequenze energetiche più sottili, laddove i disegni perfetti del mondo spirituale si dispiegano in tutta la loro evidenza. Leggi Tutto

Noi, gli esseri del Popolo Alato, giungiamo in quest’epoca non per materializzarci soltanto, ma per incarnarci. Oggi torniamo su un’onda di luce, animati da una pulsazione di nuova intensità. Abbiamo la capacità di materializzarci attirando gli atomi e le molecole all’interno dei nostri campi luminosi, ma non siamo qui per questo. Cerchiamo di incarnarci in esseri umani particolari, i cui corpi attuali si siano sviluppati da feti formati sui modelli vibratori della nostra luce. Leggi Tutto

Quando studiate nella sua pura essenza la natura della bellezza che sta dietro la perfezione del maschile e del femminile, trovate Dio. Giacché alla fonte, al centro, nel cuore di tutto ciò che è femminile si trova Dio, e nel cuore, al centro, alla fonte di tutto ciò che è maschile si trova Dio: lo stesso Dio, l’Uno, il Grande Spirito; e questa è la natura di Dio. Leggi Tutto

Il concepimento di una vita nuova esige un’intenzione creatrice fortemente concentrata: richiede un’attenzione così profonda e precisa nei confronti dei dettagli, che se questa concentrazione dovesse disperdersi contemporaneamente tra molteplici cellule, il miracolo del concepimento non potrebbe avvenire. Leggi Tutto

La giornata volgeva al termine. Penetrai nella penombra della capanna e sedetti a gambe incrociate in un cerchio di persone mezze nude. Leggi Tutto

Quando ebbe termine la cerimonia della Capanna del Bagno di Vapore, che aveva ridestato in me il ricordo del Cerchio dei Fedeli delle Stelle, mi trovai in uno stato di consapevolezza pura, non verbale. Leggi Tutto

Cap.VIII – Adadarhoh

Durante la luna successiva rimasi presso i Mohawk, che mi consideravano ormai uno dei loro. Come avevo sperato, il Popolo della Selce fu il primo ad accettare di appartenere ad una confederazione tribale, a patto che potessi farmi garante della buona volontà delle altre nazioni irochesi. Fatto curioso, Hiawatha si mostrò più interessato di chiunque altro alla mia missione. Fino a tarda notte, dopo che tutti gli altri si erano ritirati, io e lui restavamo a discutere vicino al fuoco, e col trascorrere delle settimane, condividemmo la stessa visione.

Quando giunse il giorno della mia partenza, Hiawatha chiese di potermi accompagnare. Per scusarsi del suo iniziale comportamento, evocò l’oscura e profonda disperazione nella quale era sprofondato in seguito alla morte della moglie e dei figli, divorati da un essere umano dall’aspetto mostruoso. Di nome Adadarhoh, questi si aggirava nella regione, simile ad una belva, seminando il terrore. Secondo Hiawatha, Adadarhoh non era un serpente dalle molte teste, così come credevano alcuni, ma un essere vile, uno stregone malevolo, dal cuore e dalla mente perversi, che si nutriva di carne umana e andava a caccia di uomini come se si fosse trattato di selvaggina.

Sebbene i racconti relativi alla natura ed all’aspetto di questa creatura concordassero raramente e Hiawatha stesso non l’avesse mai visto coi suoi occhi, le leggende su Adadarhoh – noto anche con il nome di Tadodaho – avevano raggiunto le sponde del lago Michigan, e nessun guerriero delle tribù che vivevano nelle foreste nord-orientali avrebbe osato avventurarsi nella pericolosa valle dove si riteneva vivesse quel demone pazzo.

Siccome la mia opera con i Mohawk era stata completata e la regione nella quale errava Adadarhoh si trovava lungo il percorso che conduceva presso la tribù degli Oneida che mi proponevo di visitare, Hiawatha ed io ci incamminammo con l’intenzione di scovare l’assassino. Secondo i Mohawk, era insensato da parte nostra partire alla deliberata ricerca di Adadarhoh, ciononostante nutrivano per noi un grande rispetto e ci rivolsero il loro augurio di successo. Se non fossimo stati uccisi dal mostro, pensavano, l’avremo sicuramente ucciso, poiché la sua malvagità costituiva un pericolo per tutti gli abitanti dei dintorni.

Tuttavia, in ogni creatura che respira, brilla una scintilla del Grande Spirito. Mentre ci dirigevamo verso la valle di Adadarhoh, senza mai fare il nome del celebre demone dalla testa di serpente, parlai con Hiawatha del giorno in cui la comunicazione profonda ed autentica avrebbe compiuto delle realizzazioni infinitamente superiori rispetto a quelle generate dalla violenza.

«Quando ti accontenti di distruggere le cose che non riesci a comprendere, esse tornano a te senza posa ed ogni volta sotto una diversa forma, peggiore della precedente – gli dissi – ma quando cogli le motivazioni del tuo avversario, spesso sei in grado di aiutarlo a scoprire vie superiori, attraverso le quali potrà realizzare i propositi che più gli stanno a cuore.»

«Ma non potrai mai ottenere che un tale individuo ti ascolti! – esclamò Hiawatha, cogliendo perfettamente l’allusione celata dietro le mie parole. – Il tomahawk è la sola cosa ch’egli comprenda. Non si tratta di qualcuno col quale tu possa intavolare una discussione logica, poiché egli capisce soltanto il linguaggio della violenza ed è così che si rivolge a tutti gli uomini, donne e bambini che incontra sul suo cammino. Deganawida, sopprimerò Adadarhoh per amore e non per spirito di vendetta, poiché grazie a te ho potuto estinguere questo fuoco distruttore. Lo sopprimerò per risparmiare ad altri la sorte ch’egli ha inflitto con una tale incoscienza alla mia famiglia.»

Questa fu la nostra conversazione mentre ci dirigevamo verso la valle in cui abitava il mostro. Giunti sul posto, elaborammo insieme un piano, dietro mio suggerimento: io avrei fatto finta di essere afflitto da un male o da una pena qualsiasi allo scopo di attirare il mostro assassino in mio soccorso, mentre Hiawatha, l’arco teso e pronto a scoccare la freccia, avrebbe osservato da una certa distanza. Ritenevo che se in quell’uomo brillava la più piccola scintilla di bontà egli sarebbe venuto in mio aiuto, offrendomi così la possibilità di stabilire un contatto con lui. Altrimenti, in caso di attacco, avrei lasciato fare a Hiawatha.

Gli eventi presero una piega migliore di quanto avevamo immaginato.

Dopo essermi disteso dietro a un albero abbattuto, non lontano dalle braci dell’ultimo accampamento di Adadarhoh, ed aver invocato aiuto, la calamità che terrorizzava la regione si avvicinò zoppicando, lo sguardo animato da una spaventosa sete di sangue. Dapprima venne verso di me con passo cauto, ma si rilassò quando mi vede steso al suolo, mentre lo supplicavo di darmi dell’acqua. Osservò attentamente la mia casacca ed i miei gambali in pelle di daino, il recente frutto del delicato artigianato Mohawk. Indi, senza un attimo di esitazione, levò il suo tomahawk per uccidermi.

La reazione di Hiawatha superò ogni mia più ottimistica speranza. Infatti, anziché trafiggere Adadarhoh, gli piombò alle spalle, facendo cadere l’ascia dalla mano ricoperta di peli grigiastri. Nello stesso momento rotolai per terra, feci perdere l’equilibrio ad Adadarhoh, indi mi gettai su di lui, immobilizzandolo mentre si dibatteva, contorcendosi e bestemmiando. Hiawatha era uno straordinario uomo d’azione ed in men che non si dica aveva già legato il mostro mani e piedi. Prima che questi potesse rendersi conto di quanto accadeva, si era ritrovato alla nostra mercé, disarmato, seduto con la schiena appoggiata contro un tronco d’albero. Hiawatha tese il proprio arco e puntò la freccia contro il suo cuore.

Per la prima volta potemmo osservare quell’uomo disprezzato da tutte le tribù: un’atroce malattia aveva reso il suo corpo terribilmente deforme; i suoi muscoli, quasi grotteschi, erano enormi e sprigionavano una forza che, lungi dal ridurre la sua mostruosità, non faceva che accentuarla.

Se anche Hiawatha aveva provato collera e compassione, quando iniziò a parlare non ne era rimasta traccia alcuna. «Adadarhoh, – disse con un tono pacato e chiaro che conferì alle sue parole una forza simile a quella del suo arco teso, – ascolta attentamente, giacché la tua vita ormai appartiene a me.»

Senza tralasciare nessun dettaglio, Hiawatha raccontò allora come avesse scoperto il massacro della sua famiglia. Durante la sua narrazione, l’espressione di Adadarhoh rimase dura ed impietrita, sicuro che, alla fine dell’atto di accusa, avrebbe sentito la freccia trafiggergli il petto. Ma quando terminò di narrare quanto era accaduto ai suoi cari, Hiawatha gettò bruscamente l’arco tra gli arbusti, disgustato dalla violenza e da tutte le sue manifestazioni. Afferrò selvaggiamente la freccia con entrambe le mani, ed affrontò il mostro legato ai piedi dell’albero. I muscoli tesi, mantenne l’arma a qualche centimetro da quel viso pieno d’odio.

Hiawatha compì allora una cosa meravigliosa. Fissò intensamente negli occhi Adadarhoh ed affermò: «Ti perdonerò e risparmierò la tua vita, ma in cambio ti chiedo di fare qualcosa per me. Ascolta il mio amico Deganawida e rifletti sulle sue parole.»

Detto questo, con un colpo secco spezzò la freccia e ne posò i due frammenti per terra, di fronte ad un Adadarhoh sbalordito. Indi, Hiawatha si volse verso di me e mi chiese di parlare, ma ero troppo commosso. Scuotendo il capo in segno di diniego, lo invitai a continuare.

E per la prima volta udii i miei insegnamenti per bocca di un altro. Hiawatha mi stupì ancora una volta: con parole intrise di bellezza, poesia ed eloquenza, egli evocò la fratellanza che vedeva riunite tutte le creature, quadrupedi, bipedi e alate. Parlò della sacra natura della vita umana, delle gioie generate dall’amicizia, dei benefici di cui godevano i popoli che vivevano in pace, armonia e cooperazione.

Con un’oratoria che andava ben oltre la mia, e con una passione scaturita dalla stessa fonte che animava anche me, Hiawatha parlò a quel relitto deforme che un tempo era stato un uomo. E quando rievocò la pace del cuore ed i suoi benefici effetti, riuscii a sentire le grandi ondate rassicuranti che si irradiavano dal suo cuore. Penso che Hiawatha avrebbe persino potuto far cantare le pietre per l’emozione, mentre rivelava come la gioia riesca a colmare il cuore degli esseri pacifici che vivono nell’Amore del Grande Spirito ed in armonia con le leggi della natura.

Incredulo, Adadarhoh ascoltava, cercando di scoprire la trappola che doveva celarsi dietro le parole di Hiawatha: ma questi leggeva nei suoi pensieri e pareva rispondere ai suoi interrogativi ed ai suoi dubbi prima ancora che venissero formulati. Osservandolo, capii che Hiawatha eccelleva nell’arte di interpretare le minime contrazioni del volto del suo interlocutore ed i rari movimenti dei suoi occhi.

Quando Hiawatha narrò la storia della mia caduta nel burrone, l’espressione di Adadarhoh mutò, e una debole scintilla di comprensione illuminò il suo viso. Con voce esitante e spezzata, si espresse per la prima volta. Sui suoi lineamenti si leggeva la perplessità: interrogò Hiawatha a proposito del luogo in cui sorgeva la quercia, giacché essa costituiva un punto di riferimento per i cacciatori di tutta la regione, e pareva che Adadarhoh si fosse in passato arrampicato sui suoi rami per braccare la selvaggina. Quando riuscì a capire che io e l’albero eravamo precipitati nella gola, che io stesso avevo abbattuto la quercia per trasmettere ai Mohawk un importante messaggio, che ero sopravvissuto alla caduta e che la nazione Mohawk mi considerava ormai un essere sacro, Adadarhoh mi guardò con nuovo rispetto.

Nel suo linguaggio sconnesso, mi chiese della mia caduta nel burrone e volle sapere i dettagli relativi alle condizioni che mi avevano permesso di salvarmi. Era sbalordito nel vedere che qualcuno avesse potuto sopravvivere a quella caduta. Non era sempre facile riuscire a capire il suo modo di parlare: egli utilizzava una parola che io e Hiawatha non conoscevamo, ma che alla fine ci parve un’espressione per designare la giustizia. Anche attraverso il suo sistema di valori confusi e falsati, Adadarhoh coglieva vagamente i concetti del bene e del male, e alla fine capimmo che reputava giusto che fossi scampato alla morte, in virtù della forza e della nobiltà delle mie intenzioni. Additando se stesso, espresse con chiarezza – e stavolta lo capimmo facilmente – che, in tutta giustizia, un essere come lui, animato da un cuore così miserabile, non aveva il diritto di vivere. Si pentì della sua sanguinosa esistenza e supplicò Hiawatha di ucciderlo all’istante.

Per tutta risposta, Hiawatha si scagliò contro di lui sguainando un lungo coltello, del quale vidi scintillare la lama e, senza alcuna esitazione, anziché privarlo della vita, si affrettò a liberarlo dalle corde che lo tenevano legato.

Mentre ci sedevamo tutti e tre insieme, tutti e tre ugualmente liberi, in un silenzio carico di stupore, Hiawatha ed io fummo impressionati alla vista delle espressioni di perplessità che si succedevano sul viso di Adadarhoh.

Trascorsero alcuni minuti.

Nell’aria aleggiava un sentimento di fratellanza, come se, in altra epoca, tutti e tre avessimo già vissuto una certa oscurità dell’anima. Hiawatha raccolse il tomahawk di Adadarhoh, caduto a terra durante la lotto che ci sembrava ormai appartenere ad un lontano passato, e narrò come la sua collera ed il suo odio si fossero recentemente trasformati per far posto al suo attuale impegno al mio fianco. Il racconto lasciò intendere che un tale mutamento fosse del tutto naturale, che non ci fosse nulla di sorprendente nel fatto che un individuo, dominato fino a poco tempo prima da una violenta passione per la guerra, si dedicasse ora con pari intensità alla grande e nobile causa della pace.

Hiawatha avrebbe in seguito impiegato spesso quel linguaggio che udivo allora per la prima volta. Le sue parole esercitarono un forte impatto su Adadarhoh, e nei mesi ed anni successivi avrei altresì avuto modo di constatare la loro influenza su altri individui. Una semplicità, una profonda naturalezza si sprigionavano non soltanto dalla persona di Hiawatha e dalle forme che assumeva la sua espressione, ma più in generale dalla maniera in cui egli trasmetteva i suoi messaggi.

Mentre Adadarhoh manifestava il proprio assenso annuendo lentamente col capo, Hiawatha gli rese il tomahawk con queste parole: «Fratello, noi ti restituiamo la libertà. Assicuraci semplicemente che non userai quest’arma contro di noi o contro a qualsiasi appartenente ai popoli irochesi; li potrai ben presto considerare a buon diritto come i tuoi amici, così come ora io ti considero mio amico.»

Adadarhoh tese il braccio per prendere l’arma: «Amico, – disse, enfatizzando col tono della voce il significato della parola e fissando negli occhi Hiawatha e l’ascia che entrambi tennero in pugno per un breve istante. – Amico, non potrei mai usare quest’arma contro un …amico.»

Pronunciò l’ultima parola lentamente, come se il termine “amico” gli provocasse una sofferenza o riaprisse in un lui un’antica ferita. Hiawatha ritirò la mano dall’arma.

Indi, com voce spezzata, Adadarhoh ci raccontò la storia della sua malformazione infantile, dello scherno di cui era stato fatto oggetto da parte degli altri bambini; ci spiegò che era allora sprofondato nella malvagità, facendosi bandire dalla propria tribù. Questi ricordi sembravano riaffiorare nella sua mente per la prima volta dopo tanti anni. Sollevando con delicatezza il tomahawk resogli da Hiawatha, terminò il racconto e, fissandoci intensamente negli occhi, ci ripetè con palese sincerità che non avrebbe mai levato l’arma contro un amico. Scoprimmo allora la verità: Hiawatha ed io eravamo i primi esseri umani che gli avessero dimostrato amicizia.

Trascorremmo la primavera nella valle, in compagnia di Adadarhoh, fino ai primi caldi dell’estate. Dacché mi ricordavo, non avevo mai vissuto prima d’allora una stagione più felice, né mi accadde più nulla di simile in seguito. Di giorno, ci dedicavamo alla caccia o alla pesca, a volte insieme, a volte da soli. Alla sera, intorno al fuoco, insegnavo a Hiawatha i canti che erano la storia del nostro popolo. Hiawatha ed io intonavamo in coro quelle melodie giunte dal Popolo degli Uccelli, nate dall’alito dello spirito eterno, che i nostri antenati avevano cantato per decine di migliaia di anni prima che la guerra si insinuasse nel cuore della nostra gente. Nel frattempo, Adadarhoh aveva davvero subito una trasformazione: cominciò a stare seduto con la schiena più diritta e a pensare con maggiore chiarezza; sentiva come noi la presenza guaritrice degli Esseri Alati. Hiawatha ed io, mentre cantavamo, spesso fino a tarda notte, scorgevamo ogni tanto nel chiaro di luna delle volute di luce emanate da figure alate che venivano ad avvolgere Adadarhoh durante il sonno, e talvolta udivamo i dolci accordi di un canto delicato e sottile, le cui note, assai simili alle nostre, parevano guidare i vortici splendenti di luce. Sapevamo che il Grande Spirito stava operando per guarire il corpo di Adadarhoh: la parola e l’esempio avevano già portato la guarigione nella sua comprensione.

Hiawatha ed io scoprimmo che Adadarhoh possedeva delle reali affinità con i serpenti quando una sera, di ritorno dalla caccia, trovammo il suo corpo quasi interamente ricoperto di rettili neri e frementi. Almeno quattro di quelle amichevoli creature erano attorcigliate ai capelli che gli scendevano fino alle spalle. Era impressionante vederle rizzarsi, sorprese dal nostro arrivo, e dardeggiare la lingua fissandoci con i loro minuscoli occhi penetranti. Durante i lunghi anni del suo esilio, quest’anima solitaria aveva apparentemente avuto per unici compagni proprio i serpenti.

Quando giunse il momento di congedarci e di proseguire il nostro viaggio verso l’accampamento estivo del Popolo delle Pietre Erette, che aveva già avuto notizia del nostro arrivo e ci stava aspettando, Adadarhoh era ormai un altro uomo. Guarito e fortificato, dall’aspetto più giovane e robusto, ci accompagnò fino ai margini della valle.

Prima di salutarci, strinse le nostre mani tra le sue dicendo: «Tornerò tra la mia gente, gli Onondaga che un tempo mi cacciarono. Racconterò loro quanto è accaduto qui e parlerò di ciò che mi avete mostrato. Parlerò della grande luce, della saggezza dei vostri insegnamenti. Annuncerò la venuta di due esseri sacri che ben presto giungeranno tra loro portando le parole di pace, i canti ed i messaggi delle tribù dell’energia alata, da tutti venerate. Al vostro arrivo, vi prometto che sarete accolti ed ascoltati. Siete entrambi miei amici. Grazie.»

Lasciammo Adadarhoh e, mentre camminavamo tranquillamente attraverso una foresta che mostrava tutto lo splendore dell’estate, insieme rievocammo tutto ciò che avevamo visto. Parlammo di Adadarhoh e soprattutto della sua gente, il Popolo delle Colline, gli Onondaga, dall’animo caparbio e feroce. Dovevano trascorrere circa tre anni prima che rivedessimo Adadarhoh. Quando alla fine ci ritrovammo tra il suo popolo, avevamo già ottenuto che altre due tribù, oltre ai Mohawk, si unissero alla confederazione: gli Oneida ed i Cayuga.

Benché i nostri viaggi, la nostra vita e la nostra missione presso il Popolo delle Pietre Erette ed il Popolo delle Paludi possano costituire materia per numerosi racconti, di tutti i nostri incontri con le cinque nazioni, il più difficile ed il più importante fu quello con la gente di Adadarhoh, gli Onondaga. Malgrado la nostra solida reputazione e la buona accoglienza che ci venne riservata grazie alla testimonianza di Adadarhoh, gli Onondaga, crudeli ed indipendenti, si mostrarono i più ostinati e ribelli di fronte ai nostri insegnamenti. Ci ascoltavano sempre con cortesia, ma in quei rudi uomini delle colline le parole facevano fatica ad operare dei cambiamenti nelle tradizioni delle ultime generazioni.

Grazie al racconto di Hiawatha a proposito della mia caduta nel burrone ed agli ispirati e reiterati riferimenti di Adadarhoh relativi ad “una più antica tradizione che risaliva a molti secoli prima”, poco per volta aiutammo gli Onondaga a collocare le credenze più recenti nel loro giusto contesto. Alla fine, essi si associarono al nostro modo di pensare ed accettarono di far parte della Lega delle Nazioni.

Durante la nostra opera per convincere gli Onondaga ad unirsi alla confederazione, la presenza di Adadarhoh fu di capitale importanza. Senza di lui, dubito che l’ostinato Popolo delle Colline si sarebbe impegnato, come già prima di esso avevano fatto altre nazioni, in favore della Grande Pace.

Il ruolo centrale svolto da Adadarhoh durante le trattative, unito alla grande stima che Hiawatha ed io nutrivamo manifestamente nei suoi confronti, gli permisero di elevarsi agli occhi del suo stesso popolo, e non fummo stupiti nell’apprendere, alcuni mesi dopo, che era stato eletto capo degli Onondaga. Successivamente, occupò una posizione di prestigio in seno al consiglio supremo della Lega delle Nazioni Irochesi, svolgendo tale compito con onore e distinzione fino alla fine dei suoi giorni. Benché non andasse famoso per la sua oratoria, la sua sincerità ed autenticità rimasero ineguagliate. La sua facoltà di discernimento gli permetteva di sondare le motivazioni degli uomini, e più di una volta, grazie alla sua perspicacia, la confederazione fu salvata da minacce incombenti che altri non erano riusciti a scorgere.